Sephira, 2009

Questo è il mio racconto breve pubblicato nell’antologia Vamp 2009, a cura della casa editrice Ferrara Edizioni.

I miei libri: Vamp 2009

Sephira

Il vento caldo di quella notte d’agosto stava risvegliando tutti i suoi sensi. Quel delizioso calore sulla pelle, il solo che potesse sopportare senza stare male, sembrava scuoterla dal profondo, solleticare i sensi e la sua sensualità come una leggera corrente sottopelle.

Decise di scendere in paese, spinta da un impulso irrefrenabile, cosa che accadeva molto raramente. Per lo più se ne stava nel suo eremo, apparentemente disabitato, sulla collina, da cui le sembrava di dominare il mare e quel piccolo golfo che, dopo tanto peregrinare, aveva scelto come sua dimora, proprio come un famoso esploratore che lo aveva preferito a tante mete ben più esotiche. In realtà conosceva quel luogo fin da bambina, periodo che ormai le pareva perdersi nella notte dei tempi: vi si recava d’estate con la famiglia. Poi la casa era passata in eredità a sua nipote, Clara, la figlia di sua sorella, ma, ormai che stava invecchiando, Clara ci si recava solo tre settimane d’estate e qualche raro weekend, e ignorava, come tutti, che nel resto del tempo fosse lei a continuare a vivere lì. Per la verità, ignorava come tutti che lei vivesse ancora, in quella casa o altrove, per quanto il termine vivere, nel suo caso, non fosse del tutto appropriato.

Si infilò un abito leggero e non troppo aderente, per permettere al vento di continuare ad accarezzarle il corpo, e scese in paese a lunghe falcate. Non sapeva neanche lei di cosa fosse alla ricerca, ma quando arrivò alla passeggiata lungo il mare i suoi sensi sembrarono esplodere: da un lato il vento caldo e dall’altro l’invitante suono del mare che la chiamava come sempre.

Non si sentiva così viva come da quando era stata trasformata. Allora il mondo aveva improvvisamente assunto colori, odori e sensazioni più vive che mai, ma con il tempo vi si era pian piano assuefatta. Anche la notte in cui Stephàn l’aveva trasformata soffiava un vento caldo. Nei racconti e nei grandi romanzi gotici, l’eroina veniva in genere vampirizzata per nobili motivi, come ultima possibilità per salvarla, ad esempio. Nel loro caso, invece, lui aveva semplicemente capito che lei sarebbe stata la sua compagna per sempre, che così doveva essere. E l’aveva trasformata così, semplicemente, senza chiederle il permesso, senza neanche dirle chi o che cosa era. L’aveva guardata durante una festa ed aveva capito che era “Lei”, l’aveva sedotta e, mentre facevano l’amore, l’aveva fatta sua in tutto e per tutto, trasformandola in una vampira.

Mentre si addentrava nella parte vecchia del paese, si vide per un istante riflessa in una vetrina. I suoi capelli nero-blu, alla luce gialla dei lampioni, prendevano una strana tonalità verde che aveva un non so che di marino. Si sentiva bellissima, sensuale, irresistibile. Voltandosi di nuovo verso la strada lo vide lì, solido e bello da togliere il fiato, ad aspettarla pochi passi più avanti, con quel suo sguardo seducente e caldo. Accadeva sempre così: quando lo pensava, lui compariva nell’arco di pochi minuti, richiamato da un legame invisibile quanto indissolubile e profondissimo, la viscerale connessione tra un Sire e la sua Creatura, ma non solo, l’inseparabile unione di due anime destinate.

In un istante si trovò tra le sue braccia accoglienti e subito dopo furono in spiaggia, avvinghiati sulla sabbia. Nessuno sarebbe passato di lì, erano tutti a vedere la rievocazione storica che si svolgeva al fondo del paese. Il vento e la marea montante, insieme alla morbidezza delle sue labbra ed al tocco delle sue mani, che sembravano caldissime sulla sua pelle fredda, accrebbero la sua eccitazione.

Il suono della risacca la cullava, mentre gli si apriva e rispondeva con ardore sempre maggiore alle sue spinte, in un crescendo di passione selvaggia. Al culmine dell’estasi, offrì il suo collo, nudo ed esposto, ai suoi denti affilati, nel gesto di massima intima unione che potesse avvenire tra loro, e lui, con un ruggito ferino, la marchiò come sua.

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Le ci voleva sempre qualche minuto per ritornare pienamente cosciente, dopo una simile estatica unione, e così si ritrovò quasi senza accorgersene con lui che l’aveva riportata di nuovo nel suo eremo a dominare la baia, mentre in paese scoppiavano i fuochi d’artificio.

“È bello ritrovarti”, le disse con dolcezza, scostandole una ciocca dal viso, mentre lei si stirava voluttuosa assaporando ogni movimento.

Per quanto fossero profondamente legati, la loro relazione non era mai eccessivamente stretta. La necessità di spazi e tempo non condiviso era proprio una delle caratteristiche che, per entrambi, rendeva perfetto il loro legame e faceva sì che il tempo trascorso insieme fosse un piacere e non venisse mai vissuto come un obbligo opprimente. D’altra parte, quando si ha tutta l’eternità da condividere, una convivenza troppo serrata potrebbe far scoppiare anche la coppia più solida! Inoltre, un mutuo accordo mai verbalizzato faceva sì che non ci fosse mai bisogno di spiegazioni, che non ci fosse alcuna recriminazione o terzo grado sugli spazi personali.

“Non hai mai rimpianti?” chiese lui a bruciapelo, distogliendola dai suoi pensieri. Sapeva perfettamente a cosa si stava riferendo.

“No”. La calma che traspariva dalla sua voce confermava la sincerità delle sue parole. Ci pensò un attimo, con lo sguardo perso verso il mare.

“No”, confermò. “Certo, all’inizio alcune cose dovute alla mia trasformazione sono state difficili da accettare, innanzitutto il fatto di essere dovuta sparire dalla mia famiglia. Non eravamo così intimamente legati, a quei tempi non si usavano grosse dimostrazioni di affetto, ma erano pur sempre la mia famiglia, il mio unico legame” si stupì lei stessa del distacco con cui ne parlava, ma d’altra parte il tempo guarisce molte ferite.

“Solo questo?” la incalzò lui.

“No, non è stata l’unica difficoltà… e lo sai bene! A quel tempo non mi hai lasciata un attimo per aiutarmi a superare la trasformazione, hai visto e vissuto con me ogni crisi, mi hai aiutato a comprendere ed accettare ciò che ero diventata e cosa comportava” fece una breve pausa, ripensando a quel periodo. “Non ce l’avrei fatta, senza la tua guida” aggiunse voltandosi a guardarlo negli occhi.

“È ciò che deve fare ogni buon Sire” rispose lui ricambiando lo sguardo. “Solo un incosciente abbandonerebbe la sua Creatura subito dopo averla trasformata”.

Sapevano entrambi che non era solo per un dovere etico che l’aveva seguita con tanto amore, in quel periodo così sconvolgente, ma anche quelle piccole schermaglie, quel minimizzare i gesti che facevano l’uno per l’altra, erano parte del loro equilibrio di coppia.

“No, non ho rimpianti” sentenziò di nuovo lei sicura, tornando a perdersi con lo sguardo all’orizzonte. “Ho smesso di fuggire da me stessa da tanto tempo, Stephàn, ho accettato a modo mio ciò che sono diventata ed ho imparato a convivere con sogni che non potranno avverarsi, con i limiti di un corpo che sembra più vitale di quanto non mi fosse mai sembrato prima, ma che in realtà vivo non è, per quanto forti siano le sensazioni che mi fa vivere”.

Si fermò un istante a riflettere.

“Ero stata educata per essere una docile moglie ed una madre amorevole” aggiunse con una impercettibile smorfia “Beh, il tempo ha dimostrato senza ombra di dubbio che non sono poi così docile…”.

Lui la interruppe scoppiando in una risata contagiosa. Umorismo vampiresco, si potrebbe dire. “Già” commentò “quei canini affilati che ti stanno spuntando dalle labbra mentre ridi non ti danno un’aria così docile!”

“Io non sono tagliata per il matrimonio” riprese lei quando riuscirono a tornare seri. “Non lo sono mai stata. Ma quando ero giovane, quando ero anagraficamente giovane, voglio dire, non c’erano molte alternative, per una ragazza. L’istruzione che avevo ricevuto mi consentiva al massimo di mandare avanti una casa, prendermi cura di un marito ed allevare bambini sani ed educati. Non era previsto che potessi trovare un impiego, mantenermi, emanciparmi… Sarei stata inevitabilmente costretta ad accettare una vita che non faceva davvero per me e non sarei mai stata felice!”.

“Così, invece, sei felice?” le chiese con un tono che fu come una carezza sulla pelle, dolce e calda.

“Sì”, rispose con sicurezza. “Posso essere me stessa in ogni momento, sono libera, sono immortale… non c’è controindicazione al mondo che possa offuscare tutto questo, anche se non posso espormi alla luce del sole, anche se devo seguire una dieta… particolare…”

Per qualche minuto rimasero entrambi in silenzio ad ammirare il mare.

“Non è vero” ammise alla fine “Non del tutto, almeno. Alcune cose mi pesano ancora oggi, ma amo comunque questa vita e sono felice”.

“È difficile veder morire le persone che amiamo, sopravvivere alle nostre famiglie, agli amici” le fece eco lui, improvvisamente con un’ombra che gli attraversava lo sguardo.

“Sì” concordò lei carezzandolo “Ma sapere che non dovrò sopravvivere anche a te, che mi sarai sempre accanto, rende la mortalità delle persone che amo più sopportabile. Tu sei il mio punto fermo, la mia famiglia…”

Entrambi si ritrovarono per un attimo a pensare alle persone che avevano perso ed a coloro che, in quel momento, facevano parte della loro vita e a cui un giorno avrebbero dovuto dire addio. “Un’altra cosa mi fa soffrire, anche se potrebbe sembrare più futile… amo gli animali, li ho sempre amati, a volte anche più delle persone, ma ora loro mi vedono come un predatore, un pericolo, e mi sfuggono spaventati, mentre io vorrei solo poter avere di nuovo con loro quel legame speciale che avevo una volta”.

“È la natura, mia adorata” la consolò lui “è inevitabile! Tu sei un predatore, uno dei più temibili anche, e gli animali lo sentono. Quello che non possono sentire è che, al di là di qualsiasi tuo istinto, non saresti mai capace di far loro del male”.

Sapere che fosse naturale non la consolava affatto, mentre ripensava agli animali che giravano sempre per casa, quando era ancora in famiglia, al loro amore incondizionato, alla loro dolcezza nei suoi riguardi. Ma lui cambiò discorso, distogliendola da quei pensieri tristi.

“Trasformandoti, hai anche perso la possibilità di essere madre… non hai mai voluto parlarne, ma so che è questo ciò che ti fa soffrire maggiormente!”

“È ciò che mi è costato più fatica accettare” ammise lei “Non avrei mai voluto un marito, ma ho sempre sognato di avere delle figlie da stringere a me, da coccolare e crescere con amore” sospirò “Sarei una buona madre, lo so, ma non è possibile. Ci sono voluti anni, ma alla fine ho trovato il modo di accettarlo e di trasformare il mio rimpianto in qualcosa di più costruttivo”.

Sapevano entrambi a cosa si riferiva.

Lei chiuse gli occhi e si abbandonò ai ricordi. Rivide Clara, la sua nipotina, quando era piccola ed indifesa. Aveva poco più di tre anni ed era stata affidata alla bambinaia per tenerla lontana dalla famiglia, colpita da un’epidemia di difterite. La bambinaia era una donna gioviale e onesta, estremamente affezionata alla bambina, con il solo imperdonabile difetto di aver scelto per marito un ubriacone pervertito.

Una notte, mentre Sephira, trasformata da pochi anni, trascorreva ancora molto del suo tempo ad osservare la propria famiglia per sentirla più vicina, l’uomo era rientrato completamente ubriaco ed aveva trovato la piccola già a letto, mentre la moglie era ancora impegnata a rassettare la casa. Si era avvicinato alla bambina con un ghigno che ne deformava il volto e l’aveva scoperta. Aveva cominciato a carezzarla in modo sempre più osceno, quando qualcosa aveva frantumato la finestra e l’aveva trascinato fuori con la rapidità di un fulmine. La bambina non aveva neanche fatto in tempo a rendersi conto della presenza dell’uomo e di quanto stesse accadendo: aveva solo iniziato a piangere per il freddo improvviso e la bambinaia era arrivata di corsa, trovando la finestra aperta e vetri rotti sul pavimento.

L’uomo, invece, si era trovato di fronte a ciò che lei era diventata: un essere straordinariamente forte, che lo aveva trascinato fuori da una finestra al secondo piano ed ora lo stava terrorizzando. “Mostro”, l’aveva chiamata in preda al terrore, senza neanche rendersi conto di quanto suonasse ironico alle sue orecchie essere definita tale da un essere che non si sarebbe fatto scrupolo di abusare di una bambina di pochi anni. “Mostro”, continuava a urlarle, mentre gli affondava i denti nella carne e si cibava di lui, saziandosi senza alcun rimpianto per aver tolto la vita ad un essere tanto più mostruoso di lei.

Da allora, era giunta a patti con se stessa, con la sua natura, cibandosi solo di mostri che volevano fare del male ai bambini, o a donne indifese, come un’ombra protettiva e vendicatrice. “Non posso essere madre, ma posso essere il loro angelo custode” disse con dolcezza, accarezzandogli il volto. “In un mondo in cui per certi mostri non c’è neanche la certezza della pena, io sono quella certezza e questo mi fa sentire di avere un senso!”.

© Federica Carmana, settembre 2009