Questo è uno dei primi racconti che ho scritto, quando avevo circa 21 anni. L’ho messo nero su bianco di getto e ho scelto di non rimaneggiarlo in seguito. Lo stile, quindi, risulta più acerbo e a tratti ingenuo rispetto a cose scritte in tempi più recenti.
Peter
Peter è mio figlio, ma non potrò mai farglielo sapere.
Quando mi accorsi di essere incinta, avevo compiuto da poco i vent’anni. Certo, non ero neanche poi così giovane, rispetto ad altre ragazze che ogni tanto si leggono in cronaca, ma per me fu davvero sconvolgente.
Io adoro i bambini, li ho sempre adorati, e da sempre desidero averne molti… ma in quel momento, come potevo?
Non avevo un lavoro e non prevedevo di poterne trovare a breve scadenza; studiavo all’università, mantenuta a volte a fatica da mia zia; su mio padre non potevo contare in nessun modo, dato che da tempo ormai non si preoccupava più del mio mantenimento, senza peraltro chiedersi come facessi a vivere; la nonna con cui avevo sempre vissuto era in ospedale e non mostrava segni di ripresa… avevo insomma avuto uno stupendo tempismo.
In quelle condizioni non potevo certo avere un bambino, gravando me stessa e soprattutto chi mi stava intorno di ulteriori preoccupazioni e problemi.
Passai i primi tempi nella confusione più assoluta, da un lato estremamente felice e dall’altro disperata, senza sapere cosa fare: da una parte il mio desiderio egoistico di tenere il bambino ad ogni costo, dall’altra la realtà.
Il padre era qualcuno con cui avevo avuto solo “un’avventura”, più per scelta sua che mia, ma di cui non ero comunque mai stata innamorata. Se gli avessi parlato del bambino, sicuramente mi avrebbe consigliato il medico migliore per un aborto, un po’ temendo che stessi cercando di “incastrarlo” e sicuramente molto cercando di scaricare le proprie responsabilità.
L’aborto, oltretutto, era l’unica ipotesi che avessi scartato a priori. Non certo perché fossi su posizioni radicalmente cattoliche in proposito, anzi, ero assolutamente convinta che dovesse esistere ed essere legale; personalmente, però, non avrei mai potuto. Quel bambino c’era, era un essere vivente ed io non potevo ucciderlo, non potevo così vigliaccamente cercare di cancellarlo, anche perché sarebbe stato come non assumermi affatto le mie responsabilità nei suoi confronti: se esisteva era a causa di una stupida, stupidissima leggerezza da parte mia e, per quanto, se avessi potuto, avrei dato qualunque cosa per riportare indietro il tempo, ora non potevo farlo sparire perché mi ero sbagliata. Forse, inconsciamente, stavo cercando anche un modo di punirmi.
In ogni caso, continuai a non parlarne con nessuno, cercando da sola di trovare la soluzione migliore, mentre i mesi passavano ed io diventavo sempre più ansiosa. Passò Natale, iniziò la primavera. Per fortuna, ero sempre stata abbastanza in carne, per cui riuscii a mascherare la mia pancia, che man mano lievitava, dietro un progressivo aumento di peso.
Nelle vacanze estive precedenti la mia gravidanza, ero stata negli Stati Uniti per un corso di inglese, a casa di una coppia veramente splendida, con cui avevo mantenuto i contatti anche una volta tornata ed un giorno, scrivendo una lettera a lei, senza sapere come, iniziai a raccontarle tutto, bisognosa di sfogarmi, di parlarne finalmente con qualcuno che potesse vedere la cosa dall’esterno, senza essere coinvolto in nessun modo e potesse così darmi un consiglio forse più giusto.
Niki, la mia ospite, mi rispose dopo poco, raccontandomi le possibili scelte di una ragazza madre negli Stati Uniti, presumendo che fossero poi le stesse in Italia, mettendo soprattutto l’accento sull’adozione. Da loro, molto spesso accadeva che le puerpere potessero conoscere la futura nuova famiglia del loro bambino, per rendersi conto che lo avrebbero amato come fosse loro e vi avrebbero provveduto nel modo migliore.
Certo, l’adozione poteva essere una buona scelta, ma inizialmente la scartai: come potevo dare via mio figlio? Lo volevo con me, volevo amarlo, prendermi cura di lui… magari avrei potuto darlo in affidamento ad un istituto finché non fossi stata in grado di occuparmi completamente di lui…
Mi resi conto di quanto spaventosamente grande fosse il mio egoismo, dato che pensavo solo a me stessa e per nulla a quale fosse la cosa migliore per il bambino.
Quando ormai ero già di quasi cinque mesi, riuscii finalmente a cambiare l’ottica di tutti i miei ragionamenti in merito solo a favore di mio figlio. Dovevo prendere la decisione migliore per lui, non per me, ed allora era chiaro che non potevo tenerlo, perché potevo offrirgli solo tanto amore e nulla di più concreto. Avrei voluto essere americana, per poter conoscere in anticipo la famiglia a cui affidavo il mio bambino: qui in Italia, tanti poveretti rimangono per anni negli orfanotrofi ed avevo il terrore che potesse succedere anche a mio figlio.
Macchinando un progetto che ancora aveva un che di irreale ed inattuabile, scrissi nuovamente a Niki. Le chiesi se sarebbe stato possibile per una ragazza straniera che partorisse negli Stati Uniti dare in adozione il bambino senza problemi, se lei avrebbe potuto occuparsi delle pratiche necessarie per me, se potevamo farcela con quella che sembrava quasi una follia.
Quando mi rispose affermativamente, misi in moto una gigantesca macchina di menzogne per far sì che nessuno ne sapesse mai nulla, non si sospettasse nemmeno, di modo che nessun altro dovesse soffrire, oltre a me.
Nonostante la nonna continuasse ad essere grave e la zia fosse sfinita quanto se non più di me per le continue cure ed attenzioni che dovevamo prodigarle, insistetti per tornare in America durante le vacanze estive, lasciando intendere che altrimenti non avrei potuto reggere ancora a lungo e sottolineando come lo stress, ad esempio, mi avesse già fatto diventare quasi bulimica. Non avrei saputo come altro giustificare questo mio improvviso e crescente “gonfiore”, certo meno appariscente che su una persona magra, ma comunque ben visibile.
Prenotai il viaggio negli Stati Uniti, con corso di inglese annesso, esattamente come avevo fatto l’anno prima, insieme alla stessa amica con cui ero già andata, che indubbiamente sarebbe stata il mio problema maggiore, una volta arrivata a destinazione; ma ci avrei pensato allora.
Per concludere, informai la ginecologa a cui mi ero rivolta anonimamente, in un consultorio, di tutto il mio apparentemente folle progetto. La gravidanza non presentava alcun problema, ma il viaggio aereo, che oltretutto cadeva esattamente alla fine dell’ottavo mese, era indubbiamente un grosso rischio, che la dottoressa mi sconsigliò in ogni modo di correre.
La mia decisione, però, era già stata presa e non sarei tornata sui miei passi per nulla al mondo.
Non mi rimaneva che aspettare che il tempo passasse, cancellando le ultime tracce di ciò che era accaduto, come ad esempio copiare alcune pagine del mio diario, le uniche in cui non parlavo del bambino, in ordine non necessariamente esatto su un’altra agenda, prima di distruggere l’originale.
In tutto quel tempo ero stata talmente occupata con i preparativi, oltre che con la nonna e lo studio, da non avere il tempo di pensare che cosa avrebbe significato per me, magari nel tempo, lasciare un figlio. Non ero in grado di pensarci, altrimenti l’egoismo avrebbe ripreso il sopravvento: avrei avuto tutta la vita, dopo, per rendermi conto di cosa potesse significare.
Partii per gli Stati Uniti con un contrasto di sentimenti nel cuore che mi davano quasi le vertigini. Ero felice di staccare per un po’ dai problemi quotidiani, da responsabilità ancora troppo pesanti a soli vent’anni, ma sapevo anche qual era lo scopo primario di quel viaggio.
Quando la mia amica ed io arrivammo a casa dei nostri ospiti, Niki era via per un paio di giorni. Solo io sapevo che stava sbrigando delle formalità per me. Mi stupì sapere che non aveva raccontato nulla nemmeno a suo marito, ma mi diede anche un grande senso di sicurezza.
Nei giorni che seguirono, la mia amica fu molto spesso allontanata da casa con delle scuse, mentre io mi comportavo come se fossi stata troppo apatica e stanca per uscire dopo la scuola.
Fu così che ebbi modo di conoscere i futuri genitori di mio figlio, una coppia giovane, ancora molto innamorata, con tanto amore da dare ad un bambino che però non potevano avere. Mi resi conto subito, quasi epidermicamente, che erano le persone giuste, esattamente quelle che cercavo. Accanto ai rapporti umani, si inserì poi l’aspetto burocratico: dovetti firmare tanti fogli, il peggiore dei quali fu indubbiamente quello in cui mi impegnavo a non cercare più in alcun modo il mio bambino, per il resto della sua vita. Inoltre, si stabilì che tutte le mie spese ospedaliere sarebbero state a carico della nuova famiglia, anche perché, dati i ben noti costi, non avrei mai potuto permettermele.
Non volli partecipare allo shopping per il corredino del bambino, nè vedere come avevano sistemato la cameretta che lo aspettava, anzi, non volli nemmeno sapere dove abitavano esattamente.
Per i giorni in cui avrei dovuto partorire, mi iscrissi ad una breve crociera a cui la mia compagna non era interessata, mantenendomi molto vaga sulle date di partenza e ritorno, in modo che la mia assenza non destasse in lei dei sospetti di alcun tipo.
Quando il bimbo nacque, mi sentii svuotata, nel corpo, ma soprattutto nell’anima.
Decisi di vederlo, un’unica volta, per chiedergli perdono e per dirgli che gli volevo tanto bene e speravo di aver preso la decisione migliore per lui. Fui io a chiamarlo Peter, come Peter Pan, augurandogli di godersi un’infanzia felice, il più a lungo possibile.
Mi sentii così vuota, così sola. Non avevo più voglia di tornare alla mia quotidianità, né alla mia casa: sentivo che nessun legame era abbastanza forte per spingermi a tornare a casa, ma mi lasciai trascinare dagli eventi prestabiliti senza cercare in alcun modo di contrastarli.
Tornata a casa, mi sentii strana, in fondo quasi rinata. Tutto mi sembrava diverso, ma era solo la mia prospettiva ad essere mutata. Cambiai molte cose della mia vita, mi diedi nuovi impulsi, tutto per non pensare a quanto era accaduto. E feci davvero un ottimo lavoro, mi tirai fuori da una situazione che avrebbe potuto schiacciarmi. Ma, nonostante tutto, ogni volta che la mia mente è un po’ meno occupata ed ho troppo tempo per pensare, mi torna tutto in mente. A volte riesco a pensare a mio figlio una sola volta al giorno; altre volte, la maggior parte, penso a lui continuamente, facendomi più o meno consciamente del male. Senza neanche il sollievo di poterne parlare con qualcuno, perché questo dovrà essere sempre il mio segreto.
So che forse, con il tempo, questo dolore si affievolirà, come quello che segue la perdita di una persona cara; ma non potrò mai smettere di pensare al mio piccolo Peter, che non saprò se è felice o triste, se sa qualcosa di me o no, né tantomeno com’è fisicamente. E non so neppure se sperare che un giorno possa sentire il bisogno di cercarmi o se temere che questo sogno si avveri.
© Federica Carmana, 1993
Tengo a precisare di non aver alcun figlio segreto in America: questo racconto è pura finzione!
Ma il semplice fatto che possiate aver pensato il contrario è, per me, motivo di grande orgoglio,
perché significa che sono convincente (e che lo ero anche a 21 anni)!!!